Big Eyes. Un film di Tim Burton
SCRITTO DA
Eleonora Saracino
- Gennaio 4, 2015
- Vaso di Pandora
Burton senza Burton. Dimenticate, per un momento, le tinte fosche, le bizzarrie e le “dark shadows” del tipico universo del regista di Burbank che qui, invece, sembra trovarsi ad un’altra latitudine. Sembra, appunto. In realtà la storia (vera) di Margaret Keane è molto più burtoniana di quanto appaia. Un lungo inganno, una mistificazione che passa attraverso i colori e le tele, che attraversa gli anni dissimulando l’ispirazione, fingendo una vocazione, mescolando la verità con la menzogna.
Cosa può esserci di più affascinante per chi ha firmato film come Edward Mani di forbice e Il Mistero di Sleepy Hollow? Nella vicenda di questa singolare pittrice c’è tutto ciò che è più caro a Burton, come la vita, unica e originale, di quegli outsider che ha sempre amato e non a caso, qui torna a lavorare con Scott Alexander e Larry Karaszewsky che avevano già firmato la sceneggiatura di Ed Wood.
Da tempo estimatore, e acquirente, dei quadri della Keane (che ha approvato il plot e compare anche in un cameo) il regista americano ha voluto raccontare la storia, intima e complessa, di un’artista che ha accettato a lungo di vivere all’ombra di un marito che spacciava per proprie le sue tele ma che, nonostante l’animo truffaldino e ambiguo, le permise di raggiungere un successo e una ricchezza insperati.
In quei candy coloured anni Cinquanta che rievocano certi suoi film precedenti, Burton, attraverso gli occhi grandi dei personaggi keaniani, ci proietta in un’epoca di radicale cambiamento dove anche l’arte, liberandosi dal giogo delle norme istituzionali, respira un’aria nuova di anticonformismo e, nonostante venga bollata come “kitsch”, riesce a rompere gli schemi dell’espressione pittorica di quel periodo aprendo la strada al pop che verrà.
Era il momento in cui l’arte iniziava il suo processo di massificazione, si concedeva, finalmente, ai più e si riproduceva, democratica e popolare, in una serialità che i critici più oltranzisti vedevano come un abominio. Dalle colonne del New York Times, l’eminente John Canady (che qui ha lo sguardo inferocito e penetrante di Terence Stamp) lanciava i suoi strali contro coloro che, come Keane, facevano fortuna immeritatamente ma il pubblico, nonostante i pesanti giudizi degli esperti, sembrava totalmente sedotto dall’incredibile sguardo dei bambini di quei quadri. Ed è in quegli occhi enormi che Burton rintraccia lo sgomento e il dolore, raccontando l’avventura umana di una donna, single e madre, che nelle sue scelte si fa femminista suo malgrado arrivando, quasi “eroicamente” a combattere una battaglia contro una mentalità borghese e perbenista che sembrava concedere solo al maschio di casa il privilegio della fama o la virile capacità di “mettere a posto le cose”.
In questo senso il film è più burtoniano di quanto, sulle prime, si creda, poiché nei personaggi di quelle tele, nelle espressioni dolenti e inquietanti di quei bambini e nella letterale enormità dei loro sguardi si entra nell’universo strambo di una fantasia che distorce, non solo il reale, ma il modo in cui esso si sottopone alla visione.
Si gioca allora con l’iperbole, e non soltanto con quella che emerge dal pennello dell’ artista, ma anche con il modo in cui i protagonisti entrano nei personaggi; su tutti l’eclettico Christoph Waltz che esaspera il suo Walter Keane amplificandone l’ambiguità nelle smorfie, rendendo – paradossalmente – il suo ghigno menzognero urticante e irresistibile. Si finisce, allora, per parteggiare più per lui che per la raggirata e ingenua consorte, nonostante Amy Adams restituisca credibilmente la naïveté di una Margaret troppo a lungo soggiogata, nel lavoro e nei sentimenti, dalle convenzioni.
Tuttavia qualcosa sembra mancare, non già il tono oscuro che caratterizza la narrazione di questo regista, quanto le sfumature perturbanti che, fuori da quelle tele, avrebbero potuto avvolgere l’intero film. E’ come se Burton si fosse fermato un attimo prima, avesse lasciato il suo sguardo sulla soglia di quei quadri finendo più che ad osservarli, per esserne osservato.
“Quando conoscerò la tua anima, dipingerò i tuoi occhi”, disse Modigliani, ed è a quell’anima che il regista statunitense sembra non essere arrivato davvero, sfiorandola appena, trattenendo la tensione emotiva della sua fantasia come per non perdersi, come avrebbe potuto (e dovuto), in fondo a quegli ipnotici “big eyes” di trepidante bellezza.
© CultFrame 01/2015
TRAMA
America anni Cinquanta. Margaret dipinge bambini dai grandi occhi che inquietano e, nel contempo, seducono lo spettatore. La sua modella preferita è la figlia con la quale ha un legame forte e viscerale. Insoddisfatta della sua vita decide di lasciare il marito e trasferirsi con la bambina in un’altra città, dedicandosi sempre più alla pittura. Quando conosce Walter, abile venditore dall’eloquio irresistibile, la sua vita cambierà per sempre. L’uomo, pittore velleitario di nessun talento, finisce per spacciare per suoi i quadri di Margaret e, in pochi anni, ne decreterà uno straordinario successo. Ma la donna deciderà di rivelare al mondo la verità per riappropriarsi della sua arte e della sua identità di pittrice. La storia vera di una delle più celebri truffe artistiche della storia.
CREDITI
Titolo: Big Eyes / Titolo originale: Id / Regia: Tim Burton / Sceneggiatura: Scott Alexander, Larry Karaszewsky / Fotografia: Bruno Delbonnel / Montaggio: JC Bond / Scenografia: Rick Heinrichs / Costumi: Colleen Atwood / Musica: Danny Elfman / Interpreti: Amy Adams, Christoph Waltz, Danny Huston, Jason Schwartzman, Terence Stamp, Krysten Ritter / Produzione: The Weinstein Company / Distribuzione: Lucky Red / Usa,2014 / Durata: 104 minuti
SUL WEB
Sito ufficiale del film Big Eyes di Tim Burton
Sito italiano del film Big Eyes di Tim Burton
Filmografia di Tim Burton
Lucky Red
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Eleonora Saracino
Eleonora Saracino, giornalista, critico cinematografico e membro del Sindacato Critici Cinematografici Italiani (SNCCI), si è laureata in Storia e Critica del cinema con una tesi sul rapporto Letteratura & Cinema. Ha collaborato con Cinema.it e, attualmente, fa parte della redazione di CulfFrame Arti Visive e di CineCriticaWeb. Ha lavorato nell’industria cinematografica presso la Columbia Tri Star Pictures ed è stata caporedattore del mensile Matrix e della rivista Vox Roma. Autrice di saggi sul linguaggio cinematografico ha pubblicato, insieme a Daniel Montigiani, il libro “American Horror Story. Mitologia moderna dell'immaginario deforme” (Viola Editrice).
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